Devoti sullo schermo, dediti all’opulenza nel backstage.
Questo il paradosso di fondo della parabola dei coniugi Bakker, predicatori televisivi destinati a una vertiginosa ascesa alla notorietà, per diversi motivi. Dapprima raggiungendo le case di milioni di telespettatori, in seguito occupando le prime pagine dei giornali e il banco degli imputati per reati finanziari. Infine, oggi, approdando sul grande schermo, nel film biografico di Michael Showalter, regista che rispetto al brio della storia d’amore raccontata in The big sick, qui soffre la struttura claustrofobica della ricostruzione storica.
Insomma, è una vicenda realmente accaduta (e già narrata da un omonimo documentario nel 2000), quella di Tammy Faye e Jim, ritratti con sguardo caritatevole pur raccontandone l’avidità, grazie alle interpretazioni di Jessica Chastain (candidata agli Oscar per il ruolo) ed Andrew Garfield, che riescono a recitare con gli occhi, benché spesso siano ringiovaniti o invecchiati da ingombranti quanto credibili mascheroni di trucco prostetico.
Studenti carichi di fede e speranze del North Central Bible College di Minneapolis negli anni Sessanta, i Bakker si inventano un modo confidenziale di fare sermoni in tv, con grande trasporto autobiografico. In particolare Tammy si rivolge all’infanzia, ideando e e mettendo a punto l’uso di pupazzi in scena. Dopo circa un decennio di gradimento popolare su canali preesistenti, nel 1974 la coppia fonda una rete, la PTL (Praise The Lord) per ospitare il proprio show televisivo religioso, che rivisto oggi pare a tratti un laboratorio della tv del dolore in salsa glamour.
E mentre i glitter sviano le attenzioni dalle speculazioni immobiliari pagate con le donazioni telefoniche (come il parco vacanze per fedeli Heritage USA), sotto i riflettori si consumano drammi coniugali, che fanno da benzina all’empatia dei telespettatori. «Noi li chiamiamo associati», precisa Tammy, che in una scena che fa da preludio al declino (a fine anni Ottanta) sbatte contro le quinte del palcoscenico ricordandoci il dilemma di «The Truman show»: restare protagonista nella gabbia dorata della finzione o fuggire dai riflettori, alla ricerca di libertà e felicità.
Al di là dell’indiscutibile valore storico, come sempre accade nei casi di ricostruzione di un vicende reali dai tratti surreali, non è solo il tasto della memoria a risultare l’elemento d’interesse per il film: il cinema qui, ancora una volta, si fa spazio di riflessione sulla costruzione del consenso. Impossibile, sebbene con le necessarie differenze, evitare di mettere in relazione Gli occhi di Tammy Faye con altri titoli che mettono a tema la costruzione del mito, l’idolatria, la ricerca di salvezza grazie all’appartenenza ad un gruppo di presunti “eletti”, catalizzati da individui con personalità forti. Un elenco minimo annovera: i documentari Tony Robbins – I’m not your Guru, dedicato all’omonimo life coach americano e Wild Wild Country, miniserie dedicata a Osho e in particolare all’arrivo in Oregon di una comunità di adepti decisi a fondare una cittadina di 10mila abitanti. Ma anche la fiction è illuminante, che si tratti di strappare qualche risata come accade osservando il Jim Carrey di Yes Man o quel bizzarro Frank Mackey: il predicatore televisivo misogino autore del metodo “Seduci e distruggi” di Magnolia, interpretato da un indimenticabile Tom Cruise che arringa una folla di uomini per motivarli a credere… diciamo… in se stessi. Quasi superfluo appellarsi, infine, al graffiante Peter Finch (nel personaggio di Howard Beale) giornalista tv che si tramuta in agitatore di folle in Quinto Potere di Sydney Lumet. Quest’ultimo caso risuona emblematico se confrontato con la rilevanza della televisione nella vicenda dei coniugi Bakker, a maggior ragione ricordando che il film di Lumet è del 1976, epoca dell’ascesa di Tammy Faye e Jim.
Intrecciando le diverse declinazioni delle proposte di rinascita personale veicolate, attraverso questi film il cinema ci racconta quanto l’essere umano, talvolta, subisca di buon grado la fascinazione di un leader (o una di coppia, nel caso dei Bakker), quando in grado di fornire rassicurazioni ed indicare con convinzione una via per la salvezza. Osservare queste espressioni del carisma nella lente del cinema, può aiutarci a riconoscere quelli che risultano essere gli elementi ricorrenti di una messinscena, dove cambiano gli attori/predicatori e i dogmi, ma resta invariato il rapporto di potere “da uno a molti”. Un esercizio utile per non ridurre la nostra fiducia (o addirittura fede) ad un’illusione.