Sembra che aspettassero da sempre d’essere intervistati, di confidarsi. Gli anziani protagonisti del nuovo documentario di Daniele Gaglianone si offrono agli spettatori come se l’incontro con il cinema fosse un appuntamento scritto nel loro destino: l’occasione per ripercorrere e tenere vive ognuna di quelle piccole – ma immensamente preziose – storie personali che tutte insieme compongono la Storia.
Il tempo rimasto, scritto dal regista insieme a Stefano Collizzolli e presentato all’ultima edizione del Torino Film Festival, è il ritratto corale frutto di un viaggio lungo tutta la Penisola iniziato grazie al progetto «Archivio ’900» (curato da ZaLab Film per Luce Cinecittà), ovvero la costruzione di un catalogo digitale dedicato alle memorie delle ultime persone che hanno conosciuto il mondo prima delle grandi trasformazioni tecnologiche del Novecento, presto consultabile online sul sito dell’Archivio Luce.
Daniele, cosa ti ha spinto a intraprendere questo percorso «in ascolto» delle memorie di una generazione?
L’interesse iniziale è legato al tema della vecchiaia come soglia, come approssimarsi della fine, un concetto che mi ha sempre affascinato. Attivarmi per raccogliere queste testimonianze, dunque, è stato naturale; tuttavia durante il cammino mi ha sorpreso l’intensità di alcune sensazioni che risuonavano dentro di me.
Qualche esempio delle emozioni inattese provate?
Se ne trova traccia nel titolo. Abbiamo fatto molta fatica per deciderlo, ma quando l’abbiamo individuato subito è arrivata la sensazione che fosse chiaro da sempre, perché l’idea di tempo rimasto è un’occasione di dualità, di ambivalenza: ovviamente evoca quello che è già trascorso, ma va inteso anche come il tempo che resta, quello per consolidare i ricordi.
Il film, pur corale, riesce a parlare con un’unica grande voce, quella di un’umanità variegata ma coesa nell’affrontare l’inesorabile trascorrere degli anni. Come avete ottenuto questo effetto?
Semplicemente chiedendoci «Cosa resterà?». Non è una domanda mortifera, al contrario il quesito ha una suggestione di vitalità. Il documentario mette in scena la vecchiaia, ma parla di infanzia e giovinezza: le persone in scena celebrano soprattutto quelle stagioni della loro vita.
Tra i tanti discorsi confidenziali degli anziani, emergono ricordi di disuguaglianze sociali evidenti, che talvolta tolgono ancora il fiato a chi le ha vissute…
La riflessione sulle differenze sociali è insita nel territorio attraversato e potevamo aspettarcela, tuttavia siamo stati molto attenti in montaggio a non dare chiavi di lettura esplicite su questo tema. Viene da chiedersi dove sia finito quel mondo così semplice nel quotidiano, ma al contempo ricco di insidie da affrontare. Certo, non dobbiamo avere nostalgia della fatica, noi che tutto sommato mangiamo tre o addirittura cinque volte al giorno… ad ogni modo alcuni aspetti di quel passato vanno salvaguardati.
Gli spettatori delle nuove generazioni sono colpiti dal film, perché fino a qualche tempo fa quel mondo postbèllico fatto di precarietà era stato relegato ad un passato remoto, tuttavia le difficoltà attuali che ci troviamo a fronteggiare lo rendono più assimilabile ad un possibile scenario presente e a un’ipotesi di futuro incerto, legato a inquietudini, dove non bisogna dare niente per scontato. Insomma, benché siano storie lontane hanno una valenza dimensione simbolica. Esistono oggi, del resto, famiglie che non riescono ad acquistare il materiale scolastico per i propri figli, proprio come allora.
Il tempo rimasto è anche una riflessione sul valore della fotografia: i racconti degli anziani spesso prendono l’abbrivio osservando vecchi scatti in bianco e nero…
Fare fotografie è un gesto che, in fondo, racconta il tentativo disperato di resistere alla morte. I protagonisti del film si aggrappano alle stampe che ritraggono stralci del loro passato: sono oggetti da tenere in mano – esperienza che si è andata via via perdendo dopo la diffusione del digitale – attraverso i quali si percepisce il passare del tempo, testimoniato dall’usura del supporto cartaceo, che anno dopo anno risulta sempre più ingiallito e sgualcito. Insomma, vissuto.