In questi giorni terribili, scossi dall’invasione dell’Ucraina, proiettare dinanzi alle scolaresche il film In prima linea è un’esperienza umana dirompente.
Tredici ritratti di fotogiornalisti: dai veterani Franco Pagetti, Livio Senigalliesi e Francesco Cito, alle giovani bresciane Francesca Volpi e Arianna Pagani, passando per Gabriele Micalizzi. Voci che si intrecciano, mentre i loro scatti illuminano porzioni buie di mondo e aprono uno squarcio nelle nostre coscienze, grazie al documentario di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso, registi pronti a rispondere con passione – in collegamento video – alle domande del giovane pubblico. (Qui il trailer).
Le attività di ascoltare e guardare, riuniti in una sala dove potersi confrontare, assumono oggi, se possibile, una valenza ancora più importante: il cinema diventa un rifugio, in questo vortice di eventi. Un luogo (e un tempo: quello dato dai minuti del film e dai momenti trascorsi a parlarne) per non sentirsi soli.
Qui un breve elenco di tematiche emerse, per continuare ad approfondire, ad interrogarsi su quanto accade nel mondo e a riflettere sull’importanza della libera informazione (proprio mentre in queste ore viene messa a rischio, così come la vita dei componenti della troupe di Sky in Ucraina):
1. Passione e MISSIONE, partire per fotografare le guerre è un’attività totalizzante. Tutti i fotografi intervistati parlano della propria vita al fronte non come una sospensione della normalità, bensì come una parte dell’esistenza che definisce anche la restante porzione di vita, quando ritornano a casa. E con la quale anche i loro affetti devono fare i conti.
2. Hanno un’aura da SUPEREROI, ma sono umani. Rischiano. Devono gestire paura, adrenalina, ricordi e paranoie che si portano a casa al ritorno.
3. Bisogna STUDIARE, altrimenti sei solo un “turista di guerra”. Così dicono riferendosi all’importanza di approfondire le situazioni storiche, sociali e politiche dei Paesi dove si recano a documentare il fronte di guerra.
4. Essere FREELANCE: è una scelta di libertà, ma anche il simbolo dello sfruttamento da parte di un sistema editoriale in crisi.
5. Prima del digitale era tutto diverso: dalle difficoltà d’invio degli scatti alle redazioni, al minor numero di PUNTI DI VISTA sul mondo (oggi chiunque può fotografare e filmare, divulgando poi su Internet: si aprono così le tematiche della responsabilità e della capacità di orientarsi in un overload di informazioni, non tutte obiettive).
6. Usare la pellicola, un tempo, era anche un limite espressivo: ogni rullino aveva un numero preciso di immagini possibili e questo era motivo di PENSARE molto prima di scattare una fotografia. I professionisti lo sanno e anche se dispongono di schede molto capienti, scattano con cognizione di causa
7. La professione di fotoreporter di guerra, spesso, ti presenta il conto. Si paga in rischi da correre, perdite di colleghi, FANTASMI della sofferenza con cui convivere.
8. È un lavoro che si fa per sentirsi nella posizione di “cambiare le cose”? In una certa misura può essere così, tuttavia si tratta più di un “atto di fede”, le fotografie sono come “gocce nel mare”. Tuttavia le stesse immagini, scattate per informare, possono diventare anche materiale utile per i tribunali di guerra, insomma PROVE, e quindi essere fondamentali per ricostruire un senso di GIUSTIZIA.
9. Ci vuole RISPETTO per i soggetti fotografati, con i quali si stipula un sottinteso patto di fiducia. È una QUESTIONE MORALE che ha a che fare con l’EMPATIA e la responsabilità di NON SPETTACOLARIZZARE le sofferenze, la morte. Un compito delicato, che richiede un difficile equilibrio tra la forza dell’immagine necessaria a colpire l’attenzione dell’osservatore e la trappola della “pornografia della guerra”.
10. La PAURA è importante, perché rende possibile mantenere l’idea di un SENSO DEL LIMITE, altrimenti, se ci si sente invincibili, ci si mette troppo a rischio. L’altra faccia della paura è la PARANOIA che ci si porta talvolta a casa, lo spaiamento del ritorno, la sindrome post-traumatica, gli incubi, che fanno parte del prezzo da pagare
Al netto di queste considerazioni – in una visione un po’ romantica, che guardi con fiducia al futuro – quel che resta a tutti noi (e nella Storia) sono le fotografie, che oltre alla funzione informativa possono rappresentare per la società civile uno scudo di difesa per prevenire il perpetrarsi di altre guerre, come fossero in qualche modo un antidoto al male. Veri elementi di costruzione di pace.