E poi arriva Garrone, che semplicemente fa il film di cui avevamo bisogno.
Lineare, onesto e misurato, ci racconta quella storia che già sappiamo, ma abbiamo chiuso in un angolo del cuore: ci narra “il” viaggio.
Quel viaggio. Non serve specificarne il tragitto e la destinazione è già palese: si tratta del percorso verso la speranza d’un futuro migliore.
Per questo viene indicato solo l’articolo determinativo, perché basta per definirne l’entità epica. L’unicità, il senso di impresa eroica, che – guastato dal frastuono dei media o, peggio, del silenzio – non si coglie più nei notiziari, sebbene sembri così facile da riconoscere sul grande schermo, negli occhi dei magnetici sedicenni protagonisti. Ragazzini coraggiosi, capaci di urlare agli adulti “Siete uomini!”, richiamandoli alle proprie responsabilità, per difendere la vita. Che a specchio, sono le stesse di tutti noi, comodi in platea.
Tra i tanti motivi – anche artistici – per vedere questo esempio di cinema italiano e internazionale che si fa lezione di etica senza retorica, eccone tre che possono divenire spunti d’analisi, utili a ragionare su quanto le peculiari scelte del regista, che rielabora tutta l’esperienza di oltre un ventennio di brillante carriera (mescolando le fiammate di realtà di Gomorra, Reality e Dogman con il fiabesco del Il racconto dei racconti e di Pinocchio), per distillare quella semplicità adatta a rendere avvincente (benché crudo e tragico) il percorso dei migranti, generando così empatia.
Un film italiano di cui andare fieri – anche al di là del valore artistico – che, per la delicatezza e l’efficacia con le quali tratta un tema centrale per il nostro tempo, dovrebbe essere proposto in tutte le scuole superiori, per inaugurare l’imminente nuovo anno scolastico e poi adottato come abbecedario sulle migrazioni (per stare nell’analogia con Pinocchio, esplicitata qui sotto, al punto 2). Una sorta di grande rito collettivo (com’è il cinema, del resto), che se risulta complesso da realizzare, può essere anticipato dalle famiglie in questo weekend. Oppure, ancora per qualche giorno, sfruttando la promozione Cinema Revolution che propone film italiani ed europei a 3,50€. (E, naturalmente, in territorio bresciano, potrete vederlo nella rassegna Cinema per le Scuole del Nuovo Eden).
Nel frattempo, oggi, è arrivato il primo riconoscimento a Io capitano, proprio da una giuria di studenti: il Leoncino d’Oro di Venezia80, ovvero il premio Agiscuola.
1. Niente doppiaggio
Tutti parlano solo wolof e francese ed è bellissimo sentire, ad un certo punto, le prime poche parole imparate in italiano grazie a Internet, suonano come emblemi del traguardo sognato. È una scelta coraggiosa e condivisibile, che non deve spaventare il pubblico: sarà facile accorgersi di quanto la musicalità dei dialoghi sia preziosa per restituire la realtà dei personaggi, in particolare l’umanità dei due giovanissimi protagonisti senegalesi, personaggi destinatari a restare nella storia del cinema, come novelli Antonie Doinel che guardano la terra promessa con occhi sgranati (in un particolare primo piano di Seydou sarà evidente, ora meglio evitare spoiler).
2. L’idea di osservare la Storia in controcampo
Il regista ha dichiarato di aver voluto proporre la storia partendo dall’Africa, per sovvertire la narrazione classica dei fatti. Le prime sequenze, grazie a efficacissimi casting in loco, rendono possibile immedesimarsi con Seydou e Moussa, capire perché desiderano partire, benché in sceneggiatura non si sia calcata la mano con inneschi forti: non vengono additate la povertà, la guerra o altri motivi dirompenti per scappare (tutti veri e legittimi, ma che avrebbero reso la vicenda specifica). È il desiderio universale dei giovani di esplorare possibilità migliori a muovere i due cugini senegalesi. L’idea di andare a prendersi il mondo, raggiungere quello stesso universo del benessere che viene loro propinato senza sosta sui telefonini. Una meta da classico “sogno americano”, potenziato dal racconto quotidiano di una felicità diffusa, che satura i social.
E così, Matteo Garrone pone la macchina da presa ad altezza d’uomo, per donarci lo sguardo dei suoi protagonisti. Un realismo (in soggettiva) che mostra tutta la sua potenza, ritornando a mettere la vita vera al centro, svelandone la valenza simbolica.
Per sua stessa ammissione, l’autore prova affinità tra i due giovani personaggi e Pinocchio (soggetto per il suo precedente film): i due amici si affrettano speranzosi verso un’Italia e un’Europa idealizzate come il “paese dei balocchi”, ritrovandosi purtroppo invece in un inferno da girone dantesco dove il tempo sospeso e le aspettative sono messe alla prova tappa dopo tappa, come in un’odissea. È, in effetti, un’opera epica: questa è l’epica del nostro tempo, destinata a testimoniare ai posteri chi siamo e secondo quali valori viviamo.
3. Fotografia e musiche
Infine, ma non meno importanti: la fotografia calda di Paolo Carnera avvolge la storia consegnandola agli occhi, sfiorando il limite dell’immagine estetizzante, tuttavia restando in equilibrio, perfetta per amalgamare nel film le due scene oniriche ardite, ma necessarie alla resa dello stato d’animo di Seydou (una è quella visibile nel trailer, con il ragazzo che tiene per mano una donna che fluttua nell’aria del deserto). E le musiche originali di Andrea Farri, che come su un tappeto volante ci conducono nelle immagini attraverso una miscela di arpeggi blues, intrecciandosi con sonorità etniche e sfociando in ritmiche coinvolgenti e accenni r&b, con il coinvolgimento come cantanti dei protagonisti Seydou Sarr & Moustapha Fall, in partenza, così, per un nuovo viaggio, nella discografia.
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INFO:
Io capitano è nel catalogo della nuova stagione della rassegna Cinema per le Scuole del Nuovo Eden – Fondazione Brescia Musei, consultabile qui.