MARLON BRANDO, un’icona prospettica

Marlon Brando (1924-2004), attore iconico, è stato anche un interprete del proprio tempo. Meglio: dei propri tempi. Più d’uno, infatti, ne ha vissuti.

È stato un simbolo, pronto a reinventarsi, mentre il mondo cambiava, decennio dopo decennio. Prendiamo in esame quelli che gli valsero 2 Oscar, gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Uno spazio-tempo nel quale il mondo e la società si rinnovano profondamente.

Partiamo da una domanda base: cos’è un’icona? 

Guardando oltre al concetto di immagine sacra, 

in semiotica l’icona è un segno che ha un rapporto di somiglianza con la realtà (Pierce).

Brando è “l’uomo giusto, al momento giusto… e con il giusto stato d’animo” (Stella Adler).

Nei primi anni Cinquanta si guadagna lo status di icona, che non perderà mai (benché travagli e scivoloni non siano assenti dalla sua carriera), grazie a una questione di prospettiva:

. all’inizio fu l’immagine riassuntiva d’un mondo, un giovane proiettato in avanti, capofila d’una presa di coscienza generazionale

. più avanti la sua funzione sarà speculare: incarnerà la summa delle proprie vite (private e artistiche)

Un’esistenza che pare un esperimento sociologico: lui cavia del successo, ma anche “principio attivo” di un divismo da somministrare alle masse, trasformando l’audience in campione di riferimento per uno studio antropologico.

Se Brando è stato il nostro specchio, la domanda da porsi non è tanto quanto sia cambiato lui nel tempo, ma quanto siamo mutati noi osservandolo. 

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1.

La consapevolezza d’essere icona:

2015 – Listen To Me Marlon (doc di Stevan Riley)

Brando è ossessionato dal lasciare tracce del proprio passaggio terreno: la registrazione ossessiva di nastri audio, la digitalizzazione del volto

2. 

Giovinezza tormentata e nascita del mito: prima metà dei Cinquanta

A vent’anni è rocambolescamente già a Broadway. L’incontro decisivo sarà con Elia Kazan che con slancio gli affida uno dei ruoli più importanti e difficili del teatro americano, il semiselvaggio Stanley Kowalski de Un tram che si chiama desiderio, da Tennessee Williams. 

Kazan, al contempo lo introduce all’Actor’s Studio, del quale l’attore diventa il portabandiera. 

Hollywood sarà lo sbocco naturale nel 1950, dove interpreterà Uomini di Zinnemann, per poi nel 1951 recitare per il cinema la parte di Kowalski:

1951 – Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan 

1954 – Fronte del porto di Elia Kazan

Un periodo quattro anni (e quattro film) consecutivi ottiene la nomination all’Oscar: Un tram che si chiama desiderio (Elia Kazan – 1951), Viva Zapata (Elia Kazan – 1952), Giulio Cesare (1953 – Mankiewicz)…

…e Fronte del porto (Elia Kazan – 1954), con il quale vince il suo primo Oscar, nel 1955.

E poi c’è Il selvaggio (1954/55), Il “chiodo”, il giubbotto di pelle indossato, diventa moda. 

Brando è il più grande fenomeno divistico e artistico del cinema. 

 

3. 

L’icona in una nuova prospettiva

1955 – Bulli e pupe di Joseph L. Mankiewicz 

Il confronto con Frank Sinatra (qualcuno si è chiesto se Elvis sarebbe stato Elvis senza Brando!)

Gli anni Sessanta sono il decennio nel quale l’impatto sociale di icone come Brando comincia a sentirsi in modo più significativo anche nell’Italia del boom, tra miracolo economico e ruolo cruciale dell’immagine (che trova nella tv e in Carosello un laboratorio per i divi nostrani, che inizialmente mostrano imbarazzo per la celebrità, che piano piano va rimodulandosi in forme pop).

4.

Tra un regista che si fa psicanalista e la ghigliottina della censura

1972 – Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci

Bertolucci, Maria Schneider e la vicenda giudiziaria, la censura e il rogo del film.

Nel 1973 il secondo Oscar per il Padrino (non ritirato per sensibilizzare sulla questione dei Nativi Americani).

5.

1979 – Apocalypse Nowdi Francis Ford Coppola (REDUX restauro cineteca)

Murch, Kurtz e le bizze di Brando.

Conclusioni:

Torniamo a confrontarci con il quesito iniziale: se Brando è stato il nostro specchio, proviamo a chiederci non quanto sia cambiato lui nel tempo, ma quanto siamo mutati noi osservandolo.

Brando è un’icona “prospettica”: può essere punto di fuga o fornirci il proprio sguardo in soggettiva. 

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