«Sono uno di quelli che va al cinema anche da solo, senza imbarazzi. E amo andarci per il gusto dell’esperienza in sé: non devo per forza decidere con anticipo in base al titolo del film che vedrò. Prima esco di casa, poi scelgo».
Parole di Omar Pedrini, che si accende d’entusiasmo parlando della settima arte.
Omar, cosa rappresenta, per te, il cinema?
Mi affascina, lo considero il compiersi del sogno di Wagner: l’unione delle diverse arti, che dialogano come gli elementi di un’orchestra. O di una band.
Da dove nasce questa passione?
Sono stato cinefilo prima dell’invenzione delle cassette vhs! Fin da ragazzo andavo al Circolo del Cinema Nuovo Mascherino di Brescia, nel cuore della città, a vedere le pellicole in sala. Ho frequentato il liceo classico, che mi ha fatto innamorare della tragedia greca e del teatro, quindi arrivare ad apprezzare il cinema è stato naturale. E così fin dal primo album con i Timoria, che ho scritto quando avevo 22 anni, ho parlato di contaminazioni artistiche: è dedicato agli artisti che hanno parlato di musica con la pittura e ai musicisti che hanno parlato di pittura. Già lì c’è il seme di quello che sarà il mio percorso nei trent’anni successivi, una continua ricerca aperta a diversi stimoli, proprio come quella che sta alla base di un film, che è fatto di storie, immagini, musica, recitazione…
Nella tua discografia emergono evidenti riferimenti e omaggi alla settima arte, ad esempio l’album dei Timoria El Topo Grand Hotel, ispirato a Alejandro Jodorowsky…
Sono convinto che il cinema per un musicista sia una forma di espansione dell’anima. Qualche prova? Proprio Jodorowsky mi raccontò quando faticava a finanziare il suo film La Montagna Sacra e John Lennon intervenne a sorpresa. E pensiamo a George Harrison, che per salvare i Monty Python fondò una casa di produzione!
Quali sono i tuoi registi preferiti?
Greenaway, Tarkovskij (ispirazione per la canzone Sacrificio e il mediometraggio di Sangue Impazzito dei Timoria, diretto da Alessandra Pescetta e Alex Orlowski) e Iñárritu.
E pensando al panorama italiano?
Tra i film adoro 8½ di Fellini. E poi ho un mito: Ugo Tognazzi. Ho, infatti, utilizzato una sua inedita fotografia di famiglia per la copertina del singolo Sole spento, un regalo di suo figlio Gianmarco, fan dei Timoria. Una curiosità: l’immagine del bambino che si abbuffa di spaghetti sul primo album della band Colori che Esplodono raffigura il nostro tastierista Enrico Ghedi, ottima sostituzione dell’idea originale rivelatasi complicata per questioni legate ai diritti d’autore: volevo l’Alberto Sordi di Un Americano a Roma.
Cinema per te vuol dire anche recitazione: ad esempio sei stato scelto da Pupi Avati per Il figlio più piccolo…
Cercava un vero musicista per un ruolo, apprezzo il suo cinema, dunque mi sono presentato ai casting. Sul set mi ha colpito la somiglianza del bravo interprete Nicola Nocella con un mio attore di culto, così dal nostro incontro è nato lo spettacolo teatrale Sangue Impazzito. Le prime 24 ore da mito di John Belushi.